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sabato 5 luglio 2008

VIVERE LA COMUNIONE



Ogni tanto leggiamo sui giornali notizie di qualche prete che abbandona o che è in crisi; la stessa cosa vale per la vita religiosa o per le famiglie. Vivere la comunione poi è veramente una sfida, in un mondo, compresa la Chiesa, frantumato e diviso. E allora è veramente urgente ritrovare il senso della vita comunitaria, a ogni livello, per vivere nell'unità pur nelle singole diversità. E' questa, in fondo, la vita trinitaria.


Ce lo ricorda Mons. Tonino Bello, in questa lettera-meditazione-preghiera veramente profetica, se pensiamo a quanto va ogni volta ripetendo il nostro Santo Padre: rimettere Dio, la preghiera, la vita spirituale al primo posto. Solo così si potrà ritrovare l'unità e vivere la comunione.



benedikt XVI






La sfida della comunione in una chiesa troppo divisa: al di là di ogni parcellizzazione


 


[don Tonino Bello]


 


Miei cari confratelli presbiteri,


che mi edificate col vostro esempio e con la vostra bontà, abbiamo il coraggio di decisioni forti. Liberiamoci dagli ingombri


delle tante esteriorità, dalle mille cose futili, dalle centomila attività che si tingono di parvenze apostoliche e ci rompono


l’equilibrio interiore. Riscopriamo il valore del silenzio. Riproviamo il gusto della preghiera lunga, fatta di abbandono e di


stupore davanti all’Eucarestia, centro della comunità e della nostra missione.


Manteniamo una fedeltà inflessibile alla recita del breviario. Operiamo quei provvidenziali ricambi interiori che solo


l’annuale consuetudine degli esercizi spirituali ci può assicurare. Se no diventiamo dei burocrati. Il che significa: prigionieri.


E non daremo mai al mondo l’immagine di uomini liberi.


Le stesse cose le dico a voi religiose.


E anche a voi laici impegnati, catechisti, fratelli e sorelle abilitati ai ministeri, iscritti a gruppi e movimenti ecclesiali. Se


terrete gli occhi fissi su di Lui, maestro e Signore, il vostro lavoro si caricherà di una potentissima valenza pastorale. Diversamente,


batterete l’aria pure voi, e un giorno il mondo vi accuserà davanti al tribunale di Dio e della storia, perché vi ha chiesto


un uovo e gli avete dato uno scorpione, vi ha chiesto un pesce e gli avete dato un serpente. Puntate gli occhi su di Lui.


Se riuscissimo a farlo davvero, troveremmo la fontana della comunione anche con gli altri. E qui il discorso torna ancora a


voi, miei cari fratelli presbiteri. Queste cose ve le dico con pudore e affetto e ammirazione grande, perché so quanto vi affaticate


per la vigna del Signore e quanta stanchezza accumulate per Lui. Siamo troppo divisi: nei progetti, nei metodi, nei


ritmi di esecuzione. Abbiamo parcellizzato quella che dovrebbe essere la grande forza d’urto pastorale di tutta una Chiesa in


tante piccole monadi, chiuse e non di rado infeconde.


Chiaramente non è una situazione generale quella descritta. Ma anche una sola eccezione ci autorizza a stare all’erta tutti.


Comprendete bene che una concezione così atomizzata della parrocchia, come un feudo dato in appalto a un titolare, geloso


della sua autonomia e puntiglioso custode della sua indipendenza, non corrisponde agli orientamenti conciliari. E testimonia


amaramente che non soltanto gli occhi nostri non sono fissi su di Lui, ma preferiamo anche che gli occhi degli altri si appuntino


su di noi. Dobbiamo ritrovare lo stile della comunione, il gusto della comunione, il puntiglio della comunione.


È come presbiterio, con a capo il vescovo, che annunziamo la parola, che celebriamo la fede, che viviamo la carità; non


come singoli.


Chi legge il Nuovo Testamento afferra subito questo carattere collegiale. Splendido, a riguardo, il versetto degli Atti 2,


14:«Pietro allora, levatosi in piedi con gli altri Undici parlò così…». Tutti si alzano e uno solo parla a nome degli Undici.


Cari fratelli miei, che amo tutti e a uno a uno. Se noi non esprimiamo in modo collegiale e in profonda comunione reciproca


il nostro servizio ai fratelli, noi impediamo al mondo di tener fissi gli occhi su Gesù. Li faremo figgere sulle nostre scissioni,


sulle nostre rivalità, sulle nostre manovre ambigue, ma non su di Lui. Dobbiamo, per tanto, convertirci. Ciò significa uscire


dall’isolamento pastorale. Aprirci a uno stile di corresponsabilità e di partecipazione. Specialmente tra presbiteri di una


stessa città, e specialmente tra presbiteri di una stessa parrocchia.


«Parroco e vicari si sorreggano a vicenda con il consiglio, con l’aiuto e con l’esempio. E insieme facciano fronte al lavoro


parrocchiale con unità di intenti e concordia di sforzi» (C.D. 30).


Convertirsi alla comunione significa trovare spazi per pensare insieme, per progettare insieme, per confrontarsi insieme, per


correggersi insieme, per pregare insieme, per soffrire insieme, per servire insieme. Significa avere il coraggio di posporre


tante cose secondarie, fosse anche la gratificazione che ci viene dai fedeli, dai giovani, dalle nostre iniziative, al bisogno


di condividere con gli altri confratelli gioie, preoccupazioni, speranze, magari anche attorno alla stessa mensa. Significa


esorcizzare la sindrome della scomunica, il complesso della squalifica, il tarlo del discredito reciproco. Significa accogliere i


confratelli a braccia aperte, non vederli come rivali, andarli a trovare nei momenti difficili, sostenerli nelle difficoltà, accettarli


e amarli per quello che sono. Coraggio, fratelli miei. Vedo già tanti segni positivi che mi danno speranza.


Le stesse cose le dico a voi, religiose, che sperimentate ogni giorno quanto sia difficile e grandiosa la comunione e come essa


vada costantemente invocata come bene dall’alto e tenacemente alimentata come tensione dal basso.


E a voi laici che dire? Con chi dovete realizzare questa comunione che scaturisce dal tener fissi gli occhi su Gesù? Anzitutto


col presbiterio. A questo punto capirete bene che il discorso si porta inesorabilmente sul tema della corresponsabilità


ecclesiale. Dobbiamo pur dirlo: le nostre chiese sono ancora troppo clericali, e non sempre per colpa del clero. Un tempo,


magari, i preti potevano guardare ai laici troppo zelanti con l’atteggiamento sospettoso di chi dice: prendetevi i fatti vostri e


lasciate a noi la gestione della chiesa. Oggi, invece, vi guardano con l’area un po’ seccata che sembra dirvi: non è giusto che


la carretta la lasciate tirare solo a noi.


Un tempo, forse, per lusingarvi parlavano di corresponsabilità ecclesiale in termini di diritto; oggi ve ne parlano in termini


di dovere. Nonostante tutto, però, un laicato adulto, maturo, che abbia una profonda coscienza ecclesiale, che non si senta


dislocato su fasce periferiche soltanto, che interpreti la laicità come un dono e non come una subalternanza corporativa, che


senta gravare su di sé e non solo sul clero, il triplice compito della evangelizzazione, della santificazione, della animazione


cristiana del temporale…questo laicato stenta a decollare. Di qui l’atrofia degli organismi di partecipazione (quali i consigli


pastorali, diocesani e parrocchiali), la carenza di peso specifico nelle fasi propositive e decisionali della pastorale, la mancanza


di una progettualità organica per lo meno a medio termie, lo scetticismo per la verifica e il confronto.


Carissimi laici, di cui ammiro peraltro lo spirito di sacrificio e di servizio nonché la generosa disponibilità soprattutto per


ciò che concerne la catechesi, non è un appunto quello che vi ho mosso. È una stimolazione a ricercare con più puntiglio la


dignità, il posto, il ruolo che vi competono nella Chiesa in forza del vostro battesimo e nello spirito di quella comunione che


deriva dal tener fissi gli occhi su di Lui. Puntare gli occhi su di Lui.


Se riuscissimo a farlo davvero! Troveremmo la fontana della nostra missione.


 


[Da Antonio Bello, Convivialità delle differenze, la meridiana, 2006, 12,00 euro]


“Se noi risolviamo i problemi della fe


Don Tonino Bellode


col metodo della sola autorità,


possediamo certamente la verità,


ma in una testa vuota!”


(San Tommaso)

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