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martedì 2 aprile 2013

Ricordo di Enzo Jannacci

Anch'io ho visto la carezza del Nazareno


di Silvia Guidi

I milanesi se lo ricordano ancora al vecchio teatro Gerolamo in piazza Cesare Beccaria, quando con il suo spettacolo "Ventidue Canzoni" cantava pezzi come Era tardi o Andava a Rogoredo. Comicità pura e tanta intenerita delicatezza nel raccontare storie piccole e grandi, di malavita e solitudine urbana, nascosta sotto strati di ironia surreale per mettere al riparo i testi dalla retorica e "non far ammalare il pubblico di diabete". Parole sgangherate e commosse, sussurrate o gridate da uno chansonnier un po' Buster Keaton un po' Gilbert Becaud; "compositore, medico, cantante e saltimbanco non necessariamente in quest'ordine" come lo definivano scherzando i colleghi di corsia o di palcoscenico. Vincenzo (detto Enzo) Jannacci se n'è andato dieci anni dopo il "gemello diverso" Giorgio Gaber, con cui ha condiviso una vita intera di complicità, musica e teatro ad alto tasso di intelligenza; è morto la sera del Venerdì santo, il 29 marzo, a Milano, la città dove era nato 77 anni fa.
"Era un grande artista, un poeta, un uomo eccezionale - lo ricorda Aurelio Ponzoni, in arte Cochi (del celeberrimo duo Cochi e Renato) - uno che ha compiuto nella sua vita tante di quelle cose che ce ne vorrebbero tre di vite: jazzista, compositore, attore, era pure diplomato in composizione all'accademia. E poi medico, e che medico! Uno che ha avuto esperienza con gente dal calibro di Barnard e con Azzolina. Ma per me e Renato è stato soprattutto un grande amico, un fratello maggiore". Con Gaber si erano conosciuti al liceo e avevano cominciato insieme tentando di imitare in modo maldestro gli Everly Brothers con il nome "I due corsari". Nel 1983 si presentarono come Ja-Ga Brothers in stile John Belushi-Dan Aykroyd riproponendo, con grande successo - vedi Una fetta di limone - proprio quei brani. Attore di cinema e teatro e conduttore tv, autore di colonne sonore - nel caso di Romanzo popolare di Monicelli, per il quale insieme a Beppe Viola ha adattato i dialoghi in milanese o di Pasqualino Settebellezze di Lina Wertmüller - ha scritto testi per il teatro, mantenendo intatta la capacità di guardare la realtà sempre da un punto di vista originale e imprevedibile.
"Era un eterno ragazzo - dice a "L'Osservatore Romano" Ombretta Colli, moglie di Giorgio Gaber - alcune persone hanno la fortuna di restare giovani dentro tutta la vita. Non era una posa, era davvero così. Univa a questo una grande volontà, quella che gli ha permesso di laurearsi in medicina e diventare cardiochirurgo, oltre che cantante di successo. Con mio marito l'amicizia è durata tutta la vita; negli anni Novanta è riuscito a convincerlo a mettere in scena Aspettando Godot, uno spettacolo teatrale "serio" che richiedeva tante prove e molto impegno". Della sua professione "normale" Jannacci diceva: "Con questa testa un po' matta ho bisogno di usare le mani. E mi piace aiutare la gente". Aiutare la gente con il bisturi, ma non solo; facendo ripartire cuori stanchi e coronarie rattoppate, ma anche - e soprattutto - costringendo il suo pubblico a specchiarsi nell'ironia urticante di tante sue canzoni, per scoprire, magari, di essere un po' più meschini del previsto. È il caso di Se me lo dicevi prima, presentata a Sanremo nel 1989, sicuramente meno nota e meno riuscita di Messico e nuvole o El purtava i scarp de tennis, ma efficacissima nello smascherare il cinismo indifferente dell'uomo della strada.
"Non ho ritrovato la fede - amava dire a chi si era affrettato a classificarlo tra i laici allergici al cristianesimo - semplicemente perché non l'ho mai perduta: non sono mai stato ateo". E nell'estate 2009 spiegava ai giornalisti che lo intervistavano sul caso Eluana Englaro: "Anch'io ho visto la carezza del Nazareno, anch'io ho visto quella Bellezza, anche se le mie canzoni parlano molto spesso di persone stanche, poveracci per le quali la gioia è lontana". E ancora: "Nella mia ricerca vedo il dolore del Nazareno, la sua fatica prima della crocifissione. Vedo anche che questa croce diventa la liberazione dal male, dai mali del mondo. Ma la ferita non posso toglierla: fa parte del mio bagaglio, della mia "frattura"". Una frattura, dentro, ce l'abbiamo tutti; meglio non "far finta di essere sani" e, seguendo il consiglio di Jannacci, aspettarsi tutto dalla "carezza del Nazareno".


(©L'Osservatore Romano 31 marzo 2013)

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