Squassato dalla bufera
di Gianfranco Ravasi
Il medico Rieux nel romanzo La peste (1947) di Albert Camus, quando stringe tra le braccia il bambino colpito dal morbo, non riesce a trattenersi: "Mi rifiuterò sino alla fine di amare questa creazione dove i bambini sono torturati".In quell'assenza indifferente del Creatore davanti al dolore innocente molti hanno visto una prova lampante dell'inesistenza di Dio. È questo uno dei capitoli più vasti della stessa storia della cultura perché il dolore, il male, la tragedia naturale sono il terreno privilegiato sul quale si celebrano le apostasie o le esplicite professioni di ateismo e dove la fede è collocata in un crogiuolo ardente di prova. In realtà il tema dell'assenza di Dio o del suo silenzio o della sua apparente indifferenza e della relativa tenebra in cui anche il credente si trova impigliato costituisce un immenso campo in cui fedeli e increduli si incrociano.
La Bibbia stessa non esita a mettere in scena questa esperienza drammatica, a partire dai tre giorni di ascesa di Abramo alla vetta del Moria, iniziati con la cupa voce di un Dio che contraddiceva se stesso, imponendo l'eliminazione del figlio da lui promesso e donato (Genesi 22). La testimonianza più sofferta, atroce e universale è però quella di Giobbe che ha generato uno sterminato paratesto letterario e artistico nei secoli, divenendo il simbolo di una fede lacerata che rasenta la bestemmia contro un Dio mostro (Giobbe 16,7-17) sempre taciturno, vanamente sostenuto dai suoi difensori d'ufficio.
La "fede vera" si misura nel venerdì santo, nella regione tenebrosa della sofferenza e dell'assenza di Dio, come per altro ricorda in un film emozionante del 1962 quel regista ateo-teologo che è stato Ingmar Bergman: Luci d'inverno è appunto la crisi di un pastore travolto dalla morte della moglie e che è invitato dal suo sagrestano a riconoscersi in Cristo crocifisso. Anche "l'ateo del villaggio" nella famosa Antologia di Spoon River (1915) di Edgar Lee Masters, dopo aver letto il Vangelo "in una lunga malattia mentre tossivo a morte", riconosce di aver visto come "una fiaccola di speranza e d'intuizione e di desiderio che l'Ombra, guidandomi rapida tra le caverne del buio, non poté estinguere". E questa meta è l'immortalità vista, però, non "come un dono ma come un compimento".
(©L'Osservatore Romano 10 agosto 2013)
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