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venerdì 27 settembre 2013

Il film vincitore a Venezia


                  Nelle periferie dell'anima


di Lucetta Scaraffia

Vi è una singolare coincidenza fra le parole di Papa Francesco, che incita fedeli e clero ad andare nelle "periferie" della società e dell'anima, e il film che ha vinto il festival di Venezia, Sacro Gra, dedicato al Grande raccordo anulare di Roma e meritoriamente prodotto dalla Rai. Costata anni di lavoro, l'opera non è di denuncia sociale, ma una narrazione poetica in cui la solitudine e l'estraneazione dell'essere umano di fronte all'invasione della tecnica vengono trasmesse da immagini e rumori: di vite passate in auto, di appartamenti piccoli e miseri, di locali squallidi.
Nel silenzio rotto raramente da voci umane si ascolta il rombo del nastro di asfalto che circonda la città, qualche aereo che passa a quota troppo bassa, la televisione accesa. E, ricorrente, l'urlo delle sirene. La tecnologia - rappresentata dal movimento incessante delle auto che produce intorno a sé degrado sociale e ambientale - conta i suoi caduti: scena che si ripete è l'ambulanza che arriva e carica il ferito in un incidente stradale.
Ma in questo paesaggio orribile, in questo frastuono incessante, in una condizione che ricorda un girone infernale, Dio è presente. Non tanto nei luoghi deputati a custodirlo - in una chiesa brutta e moderna il prete si aggira solitario - ma nell'animo degli esseri umani che abitano questo inferno. Fra le donne riunite all'aperto che pregano quasi con violenza, ma soprattutto nei delicati rapporti che riscaldano la vita quotidiana di chi, spinto ai margini della vita sociale, in questo inferno è costretto a vivere.
Rapporti umani, illuminati da sogni impossibili, ma che riescono a stabilire vere correnti amorose. Vincono su tutti per il calore e la freschezza quelli fra padre e figlia e madre e figlio, rappresentati in piccoli episodi e in ambienti di grande e suggestivo realismo. Ma anche il botanico che si aggira in una natura degradata e sporca per salvare le palme malate, ascoltando con timore e insieme muta ammirazione il rumore ingigantito degli insetti che le divorano, è un esempio di rapporto amoroso con l'ambiente.
L'amore trasmesso attraverso una parola o uno sguardo è così, in questo luogo terribile, la forza che permette di affrontare la morte, lasciata in mano alle ruspe e a operai indifferenti, affrontata come un fatto tecnico, una appendice del Gra. Ma Dio è anche nel finale, nell'unica musica del film, una vecchia canzone che si chiama Il cielo: certo, qui il cielo, nelle sue due accezioni - quella naturale e quella simbolica di sede di Dio - può sembrare lontano e indifferente, ma è l'unico luogo luminoso a cui gli occhi si possono volgere. Anche nel fragore delle auto e nella solitudine di una periferia degradata.


(©L'Osservatore Romano 27 settembre 2013)

venerdì 20 settembre 2013

Nelle sale "Sacro Gra" di Gianfranco Rosi


                   Gran documentario ma...


di Emilio Ranzato

All'ombra del Grande Raccordo Anulare di Roma si nasconde un'umanità marginale, dimenticata, caratterizzata da attività solitarie eppure come unite dalla comune lontananza dal resto della città. Un pescatore di anguille, un botanico "medico" delle palme, un attore di fotoromanzi, uno pseudo principe alla ricerca di titoli nobiliari, un barelliere di ambulanza. Oltre a una serie di figure di contorno altrettanto sui generis. Di alcuni di essi intravediamo anche scampoli di quotidianità, attraversati da una vita sociale rarefatta che non fa che confermare la loro emarginazione. Sullo sfondo, l'imponente autostrada cittadina, testimone impassibile, e forse simbolica di un'indifferenza molto più generalizzata.
Compito di un buon documentarista è sicuramente quello di selezionare il reale a partire dalla materia prima, ossia i personaggi, le loro azioni e naturalmente l'ambientazione, che qui è la vera protagonista. In questo il regista Gianfranco Rosi si dimostra ispirato ma anche equilibrato. Nel quadro complessivo del sottobosco che gravita attorno al raccordo prevalgono la povertà e il degrado, nel migliore dei casi un'eccentrica sottocultura. Ma il tono non è mai compassionevole o paternalistico come è capitato spesso per altre forme di realismo del cinema italiano.
Inoltre il regista "sa stare" sul set accanto ai protagonisti. Sa far decantare le loro gesta a volte minute, a volte importanti, spesso in un modo o nell'altro eroiche, al fine di catturare un'emozione che sia pienamente genuina. Il che per un documentarista corrisponde a un'ottima direzioni di attori.
Quello che manca al film - al di là di qualche inquadratura inclinata che si fonde in un tutt'uno con le architetture assurdamente futuristiche dei palazzi delle periferie - è invece una spiccata ricerca espressiva, stilistica o anche solo estetica. Si ha l'impressione che Rosi, comprensibilmente innamoratosi del mostro di cemento e dei suoi caotici satelliti, si sia fidato troppo del loro fascino, al punto da credere che un intervento esterno appena evidente avrebbe guastato l'incantesimo. Piazzando la cinepresa nel punto giusto, spesso questo taglio rispettoso paga. In altri momenti, però, si rischia di scivolare nell'oggettività del servizio giornalistico, benché di alto livello.
In tal modo, anche la poetica rischia di perdersi in un percorso un po' ondivago. Se a tratti risulta chiaro ciò che ha detto il presidente di giuria Bernardo Bertolucci nell'assegnare alla pellicola il Leone d'oro all'ultimo festival di Venezia, ossia che il film arriva a dare significato al proprio titolo restituendo un senso del sacro, è vero anche che questa qualità il film la perde talvolta di vista, forse per il sin troppo rigoroso intento di inseguire fino in fondo l'idea di un affresco quanto più caleidoscopico. Intento, per l'appunto, di natura tipicamente giornalistica.


(©L'Osservatore Romano 20 settembre 2013)

venerdì 19 luglio 2013

Ricordo di Vincenzo Cerami


                        Il laico che cercava


di Gianfranco Ravasi

Devo confessare che, sotto le volte del Pantheon lo scorso primo luglio, ho atteso che si compisse una sorta di piccolo prodigio. Sapevo che da qualche tempo Vincenzo Cerami era gravemente ammalato, ma speravo lo stesso di intravedere il suo volto tra coloro che in quel pomeriggio stavano partecipando a un evento suggestivo e significativo. Dovevo, infatti, consegnare ufficialmente le nomine dei nuovi membri della più antica Accademia pontificia, quella di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon, riconosciuta da Paolo iii nel 1542. Tra costoro Benedetto xvi aveva cooptato anche Cerami, noto al grande pubblico soprattutto per una delle sue tante fisionomie artistiche, quella di sceneggiatore cinematografico: aveva col regista Benigni approntato nel 1997 il copione de La vita è bella, affrontando la sfida di narrare visivamente in modo lieve un tema "indicibile" e pesante come quello dei lager nazisti.
Come è noto, lungo questa via artistica aveva incrociato altri registi importanti, a partire da Pier Paolo Pasolini nell'indimenticabile Uccellacci e uccellini. Ma l'arcobaleno della sua creatività era passato anche attraverso il romanzo, il racconto, la poesia, il teatro, la critica cinematografica. Anzi, proprio quest'ultimo suo impegno mi aveva messo in sospetto sul suo stato di salute (non avevo notizie indirette perché i nostri erano stati sempre e solo contatti personali): da molte settimane, infatti, non trovavo più la sua firma nelle recensioni filmiche sul supplemento letterario de "Il sole 24 ore". Ovviamente ora il mio non vuole essere un profilo bio-bibliografico, ma un ricordo quasi intimo, sostenuto dai dialoghi, dagli incontri, dalle condivisioni ideali che abbiamo avuto.
Sì, perché la mia conoscenza esplicita con Cerami, pur essendo recente, aveva acquistato subito i colori di una vera e propria amicizia. Certo, ricordo ancora la lontana ma forte emozione che provai da ancor giovane prete quando nel 1976 lessi il suo famoso Un borghese piccolo piccolo, un testo livido e tragico, illuminato dallo sforzo di sciogliere la disperazione e la violenza in un tentativo estremo di comprensione. Mai, però, avrei pensato che le nostre strade così diverse si sarebbero incrociate proprio nella città di Cerami, a Roma, quando, divenuto presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, pensai anche a lui, scrittore certamente "laico", per l'incontro degli artisti delle varie discipline e delle diverse ideologie con Benedetto xvi il 21 novembre 2009 nella Cappella Sistina.


(©L'Osservatore Romano 19 luglio 2013)

martedì 29 gennaio 2013

La Shoah nel film In «Darkness» di Agnieszka Holland


               L'occasione fa l'uomo eroe

                                                           di Gaetano Vallini

 
In occasione della Giornata della Memoria giunge anche nelle sale italiane l'intenso film In Darkness, diretto dalla regista Agnieszka Holland, che racconta la storia vera di Leopold Socha, operaio del sistema fognario e ladruncolo di Lvov (Leopoli), nella Polonia occupata dai Nazisti, il quale, spinto dagli eventi, si ritrovò a salvare la vita di alcuni ebrei. Una piccola luce nel buio della Shoah che questo bel film riaccende senza cadere nella retorica e senza indulgere alla facile commozione. La regista, infatti, pur risparmiandoci l'orrore che ben conosciamo, restituisce con bravura la durezza di quel periodo di barbarie, mostrandoci l'umanità del tempo, con le sue ambiguità, con i suoi alti e bassi. Uomini e donne capaci di gesti orribili ma anche di atti di generosità e di coraggio. Eroici, si potrebbe dire; di quell'eroismo che può nascere dal caso, da una circostanza inattesa, che pone di fronte a una scelta di vita o di morte.
Leopold Socha ogni giorno s'industria per sbarcare il lunario e mantenere moglie e figlia, non disdegnando piccoli furti. Nessuno meglio di lui conosce il sistema fognario, che utilizza anche per nascondere la refurtiva. Un giorno s'imbatte in un gruppo di ebrei: vogliono nascondersi nelle fognature per fuggire all'imminente rastrellamento del ghetto. Gli offrono denaro in cambio di aiuto. Socha sa che questo potrebbe significare la fucilazione per lui e la sua famiglia; ma la proposta è allettante, i soldi servono, e così accetta. Li nasconde, porta loro cibo, vestiti; li salva dalla cattura. Ma non tutto è semplice. Deve fugare i sospetti di un amico ufficiale ucraino convinto che celi un segreto. Inoltre col passare del tempo i soldi degli ebrei non sono più sufficienti. Non riuscendo più a reggere la pressione, decide di abbandonarli al loro destino. Ma alcuni fatti lo spingeranno a confrontarsi con la propria coscienza.
Grazie a una sceneggiatura misurata, senza cadute né eccessi, e a una fotografia livida e claustrofobica, che dà conto dell'oscurità del titolo e delle impossibili condizioni di sopravvivenza tra sporcizia e topi, il film parla dunque di un piccolo gruppo di persone alle prese con una situazione disperata. Tutti sono presentati nella loro umanità imperfetta. Anche le persone che Leopold salva. La paura, un innato egoismo che le circostanze accentuano, le rendono complesse e difficili, talora insopportabili e pericolose. Ma sono persone reali, donne, uomini e bambini. E molto più efficacemente di quanto avverrebbe attraverso una loro idealizzazione in quanto vittime, sono proprio le imperfezioni a dare valore alla loro disperata rivendicazione a rimanere vive.


(©L'Osservatore Romano 28-29 gennaio 2013)

venerdì 14 dicembre 2012

Sotto tono il primo film della nuova trilogia di Peter Jackson


      Uno hobbit ancora troppo piccolo

                                                                 di Gaetano Vallini


A dieci anni dal trionfo de Il ritorno del re, ultimo capitolo della trilogia de Il signore degli anelli Peter Jackson torna nella "Terra di Mezzo" fantasticata da Tolkien per raccontarci cosa accadde prima. Ma Lo Hobbit. Un viaggio inaspettato, attesissimo primo episodio di un'altra trilogia, non regge il confronto. Nonostante un 3d di grande impatto visivo e la tecnologia a 48 fotogrammi al secondo, contro i 24 utilizzati normalmente, che regala una nitidezza senza precedenti sul grande schermo, il film non convince. La prima parte lenta e troppo lunga viene riscattata parzialmente da un bel prologo e da un seguito che richiamano solo a tratti la magniloquenza mitologica che aveva fatto la fortuna dell'opera precedente.
Forse proprio la ricerca della perfezione visiva, con immagini pulite e senza sbavature, fa sì che il realismo da pregio si trasformi in limite, perché toglie quell'alone di epicità alle scene. Epicità peraltro già ridimensionata dal ricorso a un registro narrativo fiabesco e fin troppo incline alla commedia. E gli stessi nani finiscono per divenire delle caricature poco credibili nei panni di intrepidi guerrieri pronti a riconquistare il loro regno. Perché a questo sono chiamati. Ed è a questo che, all'inizio del film, lo stregone Gandalf il Grigio chiama lo hobbit, Bilbo Baggins, la cui presenza servirà da raccordo per comprendere i fatti che sarebbero avvenuti nella Terra di Mezzo sessant'anni dopo.
Siccome il libro di Tolkien Lo hobbit, frutto rielaborato della favola serale che lo scrittore raccontava ai figli, non si configura come un antefatto di quella storia, Jackson compie un'operazione più complessa. Prende tutto quanto scritto da Tolkien e lo integra, con molta libertà rispetto al romanzo originario e con rimandi alla precedente trilogia. Ma stavolta la riproposizione di collaudate scenografie, musiche e fotografia che avevano decretato il precedente successo non dà come risultato la stessa magica alchimia. Manca il pathos. Soprattutto resta un senso di incompiutezza del racconto.


(©L'Osservatore Romano 14 dicembre 2012)

sabato 29 settembre 2012

Cento anni fa, il 29 settembre 1912, nasceva Michelangelo Antonioni


                                  Tutto          
                  in quell'inizio folgorante


di Emilio Ranzato

Un titolo che reca dentro di sé un sottile ossimoro: Cronaca di un amore. Come si può fare una cronaca, ossia un racconto oggettivo, di qualcosa di soggettivo come i sentimenti, inconoscibili a volte persino a chi li prova? Già qui si ravvisa, all'interno di questa, che è probabilmente la più folgorante opera prima di tutto il cinema italiano, l'intento provocatorio del suo autore, Michelangelo Antonioni. Quello di creare una rottura, precoce, per molti versi sconcertante, con il neorealismo, che in quel 1950 aveva sì già perso la sua spinta più genuina, ma aveva ancora lunghi strascichi con cui ammantare gli anni a venire, del cinema italiano a non solo.
Più passa il tempo, e più appare evidente come l'Antonioni che non invecchia sia proprio il primo, quello che va dal grande esordio a Il grido (1957), il suo capolavoro, forse l'unico assoluto, passando per il frammentato ma già seminale I vinti (1953) e per il sottovalutato Le amiche (1955), film che dice cose che appaiono scomode per la loro schiettezza ancora oggi, figuriamoci nell'Italia di quegli anni, preoccupata di spargere sulle proprie ferite socchiuse il balsamo illusorio del conformismo. E sorvolando, forse, soltanto sul meno risolto e involontariamente più convenzionale La signora senza camelie (1953).
Con Il grido si arriva dunque alla massima tensione della dialettica al centro dell'ispirazione del regista. Se ci fosse anche una cosa soltanto che rende grande Antonioni, sarebbe la perfetta fusione fra contenuto e linguaggio. Se il neorealismo aveva spezzato le geometrie del montaggio narrativo hollywoodiano, elevando ogni inquadratura da semplice giuntura di un racconto ad autonoma frazione della realtà, Antonioni ricuce in gran parte quelle geometrie, ma per metterle a disposizione dell'interiorità dei personaggi. Ecco allora i piani sequenza, le inquadrature piene di punti di fuga, a indicare come il paesaggio circostante sia sempre sul punto di diventare un'espansione dei sentimenti.
Da subito dopo, comincerà invece la maniera. La caricatura di sé, che è peraltro prerogativa dei grandi artisti. E che per un autore è di solito anche l'inizio della consacrazione, da parte del grande pubblico e della critica più tardiva nonché più cospicua. Perché con la maniera si acuiscono ovviamente i tratti distintivi di uno stile e di una poetica.
Sarà questa versione macroscopica del cinema di Antonioni a influenzare generazioni di cineasti in tutto il mondo. E allora gli schermi, europei e orientali in particolare, per decenni si riempiranno di vuoti, di gesti inutili, di noia ostentata. Nasceva d'altronde proprio in quegli anni la consapevolezza di essere autori, con tutto ciò che di pericoloso può comportare. E Antonioni è stato fra i primi a cadere in questa trappola.


(©L'Osservatore Romano 29 settembre 2012)

mercoledì 26 settembre 2012

Dal National Theatre di Londra ai cinema italiani uno spettacolo che ha conquistato il pubblico inglese

Il terribile equivoco di Frankenstein


Una via di mezzo tra il Prometeo ovidiano, capace di plasmare gli esseri umani dalla creta, l'omonimo eroe tragico di Eschilo e il sogno di Aldini, il nipote dello scienziato Luigi Galvani; è questa la chiave di lettura scelta da Danny Boyle - regista di Trainspotting, The Beach, 28 giorni dopo, Sunshine, The Millionaire, 127 Hours - per portare a teatro Frankenstein. Lo spettacolo prodotto dal National Theatre di Londra è visibile anche in Italia grazie a un denso calendario di proiezioni in lingua originale sottotitolate in inglese (a Roma il 24 e 25 settembre e il 3 ottobre; le altre date sono indicate nel portale www.nexodigital.it).
Nell'opera teatrale diretta da Danny Boyle i due attori principali si alternano ogni sera nei panni del dottor Frankenstein e della sua creatura; un'idea allo stesso tempo semplice e geniale perché non fornisce soltanto il pretesto per una dimostrazione di virtuosismo interpretativo ma in quanto contribuisce a focalizzare fin da subito l'attenzione sulla specularità dei due personaggi, e la conseguente incapacità di stabilire con certezza chi sia la vittima e chi il carnefice.
Un'idea, quella della confusione dei ruoli, già presente nella prima e ormai arcaica versione cinematografica, il cortometraggio di dieci minuti di James Searle Dawley (1910), del romanzo di Mary Shelley che metteva in guardia l'umanità dal pericolo dello strapotere della tecnica. Figlia di William Godwin (uno dei pionieri del pensiero anarchico) e di Mary Wollstonecraft (che nel 1792 aveva firmato la Rivendicazione dei diritti della donna, in cui individuava l'educazione come via per giungere all'emancipazione femminile), Mary Shelley iniziò a scrivere il suo romanzo giovanissima, ad appena 19 anni. Si trovava in vacanza a Bellerive, vicino Ginevra, con il marito, il grande poeta inglese Percy Bysshe Shelley, la sorellastra Claire Clairmont e il loro comune amico Lord Byron. La vera compagna di quelle settimane fu la pioggia e così il gruppetto, costretto in casa, discuteva e si confrontava senza sosta. Fu parlando di scrittura, fantasmi e letteratura tedesca che Mary abbozzò la prima idea di quello che sarebbe dovuto essere inizialmente solo un racconto breve, ma che diverrà poi il primo vero romanzo di fantascienza della modernità. Un romanzo che ha ispirato una vera e propria saga cinematografica, fino alla parodia del celebre Frankenstein junior (1974) di Mel Brooks.


(©L'Osservatore Romano 27 settembre 2012)

sabato 1 settembre 2012

Il documentario "Clarisse" di Liliana Cavani al Festival di Venezia

                  Della Chiesa e delle donne

di Ritanna Armeni

Liliana Cavani è andata in un convento di clausura di Urbino per incontrare una comunità di Clarisse. Le aveva conosciute per caso, ne era rimasta colpita e voleva parlare con loro della vita, della fede, della Chiesa, degli uomini e delle donne e dei rapporti tra loro. Voleva farlo improvvisando le domande e puntanto sulla freschezza e la spontaneità della risposte.
Non è certo usuale vedere delle suore di clausura, riunite in gruppo di fronte a una telecamera per rispondere a domande che scavano nel vissuto delle donne della Chiesa, nel loro rapporto con la fede, con la preghiera, ma anche nella complessa relazione con gli uomini. "Gesù era misogino?" chiede in modo diretto la voce fuori campo. No, rispondono le suore, quasi tutte insieme e con un sorriso: "Non faceva distinzione fra le persone". E Francesco? Neanche Francesco era misogino, i suoi rapporti con Chiara erano fondati sulla parità, rispondono. "E se Gesù tornasse? Che farebbe un Gesù contemporaneo?". La risposta corale arriva senza esitazioni: "Non avrebbe paura delle donne. Accoglierebbe la donna come l'ha accolta duemila anni fa". Il suo ritorno, dicono con sorridente convinzione, provocherebbe un'apertura, la rottura di molti schemi nella società e nella Chiesa.
Nei ventuno minuti del documentario le clarisse appaiono serene, disponibili. Quando affrontano il difficile tema del rapporto fra uomini e donne nella Chiesa non c'è nei loro volti e nelle loro parole alcun cedimento alla lamentela, nè alcuna caduta nella rivendicazione. Ma non c'è neppure diplomazia, nè silenzi imbarazzati. È evidente che quello è un tema su cui hanno molto riflettuto, che le domande, per quanto non conosciute, non le sorprendono, che hanno dei giudizi precisi da dare. Gli uomini nella Chiesa non comprendono quello che le donne possono "dare", credono che esse possano solo "ricevere", dicono. E nelle loro parole si intravede un dispiacere. "Gli uomini non hanno capito che le suore non si limitano a pregare, ma pensano", afferma una delle più anziane del gruppo. "Sentire la parità con un sacerdote è molto raro. Loro vengono da noi solo a dire messa e poi se ne vanno". Le clarisse rispondono con levità e profondità, sono sincere, ma non indignate, rammaricate, ma non amareggiate. Sanno essere ironiche, senza essere taglienti. Vogliono solo spiegare e spiegarsi.


(©L'Osservatore Romano 1 settembre 2012)

venerdì 13 aprile 2012

La maternità nel film francese "17 ragazze"

Un nuovo desiderio nascosto

di LUCETTA SCARAFFIA

Per tanti anni, nelle culture occidentali l'eros è stato considerato il desiderio proibito e represso, e quindi il più intenso, ma oggi molti segnali ci dicono che qualcosa in proposito sta cambiando. Oggi che il sesso è diventato, al contrario, quasi un obbligo, un dovere sociale, il desiderio represso, nascosto, soprattutto per le giovani donne, è quello della maternità. Ne vediamo le prime avvisaglie nei romanzi anglosassoni rivolti soprattutto a un pubblico femminile, proprio quel genere di testi che decenni fa aveva lanciato la moda della libertà sessuale delle donne. Adesso in questi racconti fanno la loro comparsa i neonati, arrivati spesso dopo anni di desiderio inappagato, e molte pagine sono dedicate alla descrizione del rapporto con i bambini e della felicità che ne deriva alle madri.
 In silenzio, senza che nessuno ne parli, stiamo vivendo una situazione drammatica: lo rivela anche la semplice esperienza, tipica di tutti coloro che vivono nei Paesi "avanzati", del vedere il numero esiguo di bambini per le strade, nelle chiese. Ormai infatti, anche in famiglia, i bambini sono rari e quindi contesi, e manca ovunque il contributo vivificante del loro stupore, della loro energia vitale.
Un film francese uscito anche in Italia - 17 ragazze, che si ispira a un fatto realmente accaduto in un piccolo centro del Minnesota - riesce a comunicare con grande efficacia questa situazione, fornendo molti elementi di riflessione.
In una scuola media superiore di una cittadina, in piena decadenza economica e culturale, una sedicenne rimane incinta e, invece di parlarne con la madre, sempre assente e distratta, si confida con le amiche e decide di tenere il bambino per cambiare qualcosa nella sua vita vuota di affetti e di stimoli, priva di prospettive. In rapida successione, ben sedici sue coetanee - il gruppo delle amiche più strette - rimangono incinte: per scelta, per vivere insieme un sogno, un'utopia di vita comune in cui le ragazze, con i loro bambini, sperano di vivere aiutandosi a vicenda.
Certo in questa scelta - vissuta con timore e cecità dagli adulti, insegnanti e genitori, che non sanno altro che ripetere stanche soluzioni, come "mettiamo un distributore di preservativi a scuola" - c'è la volontà di dare una risposta al disagio giovanile, al nichilismo di una vita vuota, senza desideri: il sesso ormai a disposizione di tutti, senza impegno e coinvolgimento, come si vede dal modo disinvolto in cui le ragazze riescono a raggiungere il loro scopo procreativo, non è più oggetto di desiderio. Sono ragazze delle classi popolari, con poca voglia di studiare e quindi quasi prive di prospettive di un futuro professionale, figlie di famiglie disfatte o dilaniate dai conflitti, per le quali avere un figlio diventa l'unico desiderio proibito, l'unica forma di protesta, ma al tempo stesso di speranza per il futuro: "Almeno con un figlio sapremo cosa fare" dice una, e un'altra le fa eco: "Avrò sempre qualcuno che mi vuole bene".
I bambini, tutti meno uno, nasceranno, anche se la comune poi non si costituirà, e saranno le famiglie ad affrontare l'emergenza. Famiglie che hanno ricevuto ciò che oggi sembra essere l'unico segnale di allarme in grado di scuoterle da una passiva rassegnazione nei confronti del disagio dei figli.
Il film, che mette in luce i chiaroscuri di una situazione difficile e piena di contraddizioni, è capace di restituire - mostrando le ragazze incinte che sentono con emozione il bambino muoversi, e vedono con ammirata meraviglia il loro corpo cambiare - il mistero e la potenza della procreazione, il contributo di energia e vitalità che questo miracolo riesce a donare anche a un gruppo umano così disperato e vuoto.


(©L'Osservatore Romano 13 aprile 2012)

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